Un ‘Ragazzino’ e un ‘Grassone’

Se è fuori di dubbio che le camere a gas portarono l’orrore della guerra moderna a nuovi vertici e l’insegna del campo di Auschwitz è ben impressa nell’immaginario collettivo, anche il ricordo del fungo atomico desta non minore angoscia, soprattutto perché la ricerca sull’utilizzo dell’energia nucleare a scopi militari non si è mai interrotta: le armi oggi sono ancora più precise e potenti e, 77 anni dopo la tragedia di Hiroshima e Nagasaki, la paura di un conflitto ancora più devastante è drammaticamente attuale, questa volta nel cuore di un’Europa che dovrebbe fare i conti con ‘conseguenze mai sperimentate nella storia’.

‘Little Boy’ fu sganciata dall’Enola Gay su Hiroshima il 6 Agosto 1945, alle 8.15 del mattino; ‘Fat Man’ colpì Nagasaki tre giorni dopo, alle 11.02 del 9 Agosto: i morti furono quasi esclusivamente civili, più di 200.000 le vittime dirette, un dramma senza fine la sorte dei sopravvissuti.

Nella ricerca di testimonianze letterarie mi sono imbattuta nei versi tratti da ‘Il ciliegio che sopravvisse alla bomba’ di Roberto Malini, poeta milanese il cui lavoro artistico è al servizio della civiltà e dei diritti umani. Se fa male leggere che ‘Fra macerie annerite, tubi strappati, cavi, / travi, barattoli, foglie secche e cadaveri / un ragazzo si alzò. / La sua pelle era stracciata / come la veste di un reietto / le sua carni bruciate’, alla commozione subentra una sorta di disagio di fronte a chi ha anestetizzato la propria coscienza: ‘Paul Waefield Tibbets jr., / il fattorino della morte, / sganciò la bomba atomica / su Hiroshima […] Paul Waefield Tibbets jr. / visse altri sessant’anni / e per tutta la vita / affermò di dormire / sonni tranquilli’.

La rimozione dei fatti e l’indifferenza sono temi ricorrenti nella riflessione dei poeti.

‘La bomba di Hiroshima’ di Roberto Roversi si apre con uno scenario di distruzione: ‘Le ossa calcinate / riverberano il cielo senza fiato. / L’erba per sempre ha il verde rovesciato / l’albero ha il suo tronco congelato / per sempre, la natura scompare / per sempre, / nell’orrore dell’uomo / dentro un fuoco di morte’; eppure sembra che anche l’anima degli uomini si sia vetrificata, insensibile al dolore altrui: ‘E qua è l’Italia, non intende, tace, / si compiace di marmi, di pace / avventurosa, di orazioni ufficiali, / di preghiere che esorcizzano i mali’.

Gli uomini lontani dai luoghi degli eventi continuano placidamente la loro vita, ripiegata sui propri interessi, dimenticano presto e perdono l’occasione di costruire un mondo migliore: ‘il ventre della speranza’, di far tesoro degli sbagli e di rigettare le logiche di morte, è destinato a spegnersi, ‘schiacciato / nella polvere da una spada antica’, la tenace follia di chi continua a praticare la guerra, nonostante ne abbia sperimentato gli effetti orribili.

La guerra appare ancora più assurda agli occhi dei minori.

Il poeta turco Nazim Hikmet dà voce ad una bambina rimasta vittima del lancio della prima bomba, immaginando che la piccola chieda ai lettori, in un tono a metà tra preghiera e monito, di firmare una petizione per evitare che la tragedia si ripeta, cosi che altri bambini possano vivere in un mondo senza più conflitti: ‘Apritemi sono io….Sono di Hiroshima e là sono morta….avevo sette anni, allora. / Avevo dei lucidi capelli, il fuoco li ha strinati, / avevo dei begli occhi limpidi, il fuoco li ha fatti di vetro … Per piacer mettete una firma, / per favore, uomini di tutta la terra / firmate, vi prego, perché il fuoco non bruci i bambini / e possano sempre mangiare lo zucchero’.

Il campo di concentramento e Hiroshima tornano nei versi di Primo Levi: la sua attenzione è rivolta a due bambine innocenti che, senza la memoria della scrittura, sarebbero consegnate ad un oblio irrecuperabile: Anna Frank, ‘la fanciulla d’Olanda murata tra quattro mura / che pure scrisse la sua giovinezza senza domani; / la sua cenere muta è stata dispersa nel vento / la sua breve vita rinchiusa in un quaderno sgualcito’; e ‘una scolara di Hiroshima / ombra confitta nel muro dalla luce di mille soli, / vittima sacrificata sull’altare della paura’.

Ma la voce più emozionante è quella di una donna, Kurihara Sadako: nata nel luogo infernale dell’esplosione che le ha distrutto la famiglia, in un paese di ‘ombre trasparenti e cadaveri muti’, in una città ‘diventata tomba tra le macerie’; consapevole che tutti gli uomini sotto le bombe sono stati trasformati in esperimenti viventi e devastati, come anche la natura a Bikini, riesce a guardare al futuro e a trasmettere un messaggio di pace e solidarietà.

‘Facciamo nascere una nuova vita’ racconta di una madre che partorisce in un palazzo distrutto, aiutata da altre donne: ‘Ma cosa rappresenterà un bambino nato in uno scantinato buio? […] Rappresenta la stessa città Hiroshima che rivela una speranza di pace nata dalle macerie. E cosa rappresenta l’ostetrica morta prima dell’alba, ancora insanguinata? Non sarà forse rappresentazione dei duecentomila hibakusha morti prima che giungesse il giorno della pace? Con la loro morte è nata Hiroshima, speranza di pace per il mondo’.

La poetessa ha anche spesso denunciato nei suoi testi le condizioni degli hibakusha, i sopravvissuti discriminati e confinati in isolamento. E Hiroshima diventa allora come Auschwitz, l’abisso più oscuro dell’umanità, da cui la scrittura prende spunto perché l’orrore non sia più ripetuto.

Se il pacifismo di Kurihara Sadako invita l’umanità a ricostruire il futuro, ‘Ma noi, tutti / non dovremmo far tornare a splender il sole luminoso / che i nostri antenati decantavano?’, Primo Levi si rivolge ai potenti della terra: ‘Padroni di nuovi veleni / tristi custodi segreti del tuono definitivo, / ci bastano d’assai le afflizioni donate dal cielo. / Prima di premere il dito, fermatevi e considerate’.

Non dimentichiamo le ferite della Storia. Dopo cinque mesi di guerra in Ucraina, si registra già l’effetto stanchezza e la nostra satura attenzione è risvegliata solo dal rischio di fornitura di gas per l’inverno. Non dimentichiamo che, nonostante i potenti della terra abbiano spesso sbandierato la minaccia nucleare come un deterrente, gli uomini alla fine hanno sempre usato le armi che hanno inventato.

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Un ‘Ragazzino’ e un ‘Grassone’

Se è fuori di dubbio che le camere a gas portarono l’orrore della guerra moderna a nuovi vertici e l’insegna del campo di Auschwitz è ben impressa nell’immaginario collettivo, anche il ricordo del fungo atomico desta non minore angoscia, soprattutto perché la ricerca sull’utilizzo dell’energia nucleare a scopi militari non si è mai interrotta: le armi oggi sono ancora più precise e potenti e, 77 anni dopo la tragedia di Hiroshima e Nagasaki, la paura di un conflitto ancora più devastante è drammaticamente attuale, questa volta nel cuore di un’Europa che dovrebbe fare i conti con ‘conseguenze mai sperimentate nella storia’.

‘Little Boy’ fu sganciata dall’Enola Gay su Hiroshima il 6 Agosto 1945, alle 8.15 del mattino; ‘Fat Man’ colpì Nagasaki tre giorni dopo, alle 11.02 del 9 Agosto: i morti furono quasi esclusivamente civili, più di 200.000 le vittime dirette, un dramma senza fine la sorte dei sopravvissuti.

Nella ricerca di testimonianze letterarie mi sono imbattuta nei versi tratti da ‘Il ciliegio che sopravvisse alla bomba’ di Roberto Malini, poeta milanese il cui lavoro artistico è al servizio della civiltà e dei diritti umani. Se fa male leggere che ‘Fra macerie annerite, tubi strappati, cavi, / travi, barattoli, foglie secche e cadaveri / un ragazzo si alzò. / La sua pelle era stracciata / come la veste di un reietto / le sua carni bruciate’, alla commozione subentra una sorta di disagio di fronte a chi ha anestetizzato la propria coscienza: ‘Paul Waefield Tibbets jr., / il fattorino della morte, / sganciò la bomba atomica / su Hiroshima […] Paul Waefield Tibbets jr. / visse altri sessant’anni / e per tutta la vita / affermò di dormire / sonni tranquilli’.

La rimozione dei fatti e l’indifferenza sono temi ricorrenti nella riflessione dei poeti.

‘La bomba di Hiroshima’ di Roberto Roversi si apre con uno scenario di distruzione: ‘Le ossa calcinate / riverberano il cielo senza fiato. / L’erba per sempre ha il verde rovesciato / l’albero ha il suo tronco congelato / per sempre, la natura scompare / per sempre, / nell’orrore dell’uomo / dentro un fuoco di morte’; eppure sembra che anche l’anima degli uomini si sia vetrificata, insensibile al dolore altrui: ‘E qua è l’Italia, non intende, tace, / si compiace di marmi, di pace / avventurosa, di orazioni ufficiali, / di preghiere che esorcizzano i mali’.

Gli uomini lontani dai luoghi degli eventi continuano placidamente la loro vita, ripiegata sui propri interessi, dimenticano presto e perdono l’occasione di costruire un mondo migliore: ‘il ventre della speranza’, di far tesoro degli sbagli e di rigettare le logiche di morte, è destinato a spegnersi, ‘schiacciato / nella polvere da una spada antica’, la tenace follia di chi continua a praticare la guerra, nonostante ne abbia sperimentato gli effetti orribili.

La guerra appare ancora più assurda agli occhi dei minori.

Il poeta turco Nazim Hikmet dà voce ad una bambina rimasta vittima del lancio della prima bomba, immaginando che la piccola chieda ai lettori, in un tono a metà tra preghiera e monito, di firmare una petizione per evitare che la tragedia si ripeta, cosi che altri bambini possano vivere in un mondo senza più conflitti: ‘Apritemi sono io….Sono di Hiroshima e là sono morta….avevo sette anni, allora. / Avevo dei lucidi capelli, il fuoco li ha strinati, / avevo dei begli occhi limpidi, il fuoco li ha fatti di vetro … Per piacer mettete una firma, / per favore, uomini di tutta la terra / firmate, vi prego, perché il fuoco non bruci i bambini / e possano sempre mangiare lo zucchero’.

Il campo di concentramento e Hiroshima tornano nei versi di Primo Levi: la sua attenzione è rivolta a due bambine innocenti che, senza la memoria della scrittura, sarebbero consegnate ad un oblio irrecuperabile: Anna Frank, ‘la fanciulla d’Olanda murata tra quattro mura / che pure scrisse la sua giovinezza senza domani; / la sua cenere muta è stata dispersa nel vento / la sua breve vita rinchiusa in un quaderno sgualcito’; e ‘una scolara di Hiroshima / ombra confitta nel muro dalla luce di mille soli, / vittima sacrificata sull’altare della paura’.

Ma la voce più emozionante è quella di una donna, Kurihara Sadako: nata nel luogo infernale dell’esplosione che le ha distrutto la famiglia, in un paese di ‘ombre trasparenti e cadaveri muti’, in una città ‘diventata tomba tra le macerie’; consapevole che tutti gli uomini sotto le bombe sono stati trasformati in esperimenti viventi e devastati, come anche la natura a Bikini, riesce a guardare al futuro e a trasmettere un messaggio di pace e solidarietà.

‘Facciamo nascere una nuova vita’ racconta di una madre che partorisce in un palazzo distrutto, aiutata da altre donne: ‘Ma cosa rappresenterà un bambino nato in uno scantinato buio? […] Rappresenta la stessa città Hiroshima che rivela una speranza di pace nata dalle macerie. E cosa rappresenta l’ostetrica morta prima dell’alba, ancora insanguinata? Non sarà forse rappresentazione dei duecentomila hibakusha morti prima che giungesse il giorno della pace? Con la loro morte è nata Hiroshima, speranza di pace per il mondo’.

La poetessa ha anche spesso denunciato nei suoi testi le condizioni degli hibakusha, i sopravvissuti discriminati e confinati in isolamento. E Hiroshima diventa allora come Auschwitz, l’abisso più oscuro dell’umanità, da cui la scrittura prende spunto perché l’orrore non sia più ripetuto.

Se il pacifismo di Kurihara Sadako invita l’umanità a ricostruire il futuro, ‘Ma noi, tutti / non dovremmo far tornare a splender il sole luminoso / che i nostri antenati decantavano?’, Primo Levi si rivolge ai potenti della terra: ‘Padroni di nuovi veleni / tristi custodi segreti del tuono definitivo, / ci bastano d’assai le afflizioni donate dal cielo. / Prima di premere il dito, fermatevi e considerate’.

Non dimentichiamo le ferite della Storia. Dopo cinque mesi di guerra in Ucraina, si registra già l’effetto stanchezza e la nostra satura attenzione è risvegliata solo dal rischio di fornitura di gas per l’inverno. Non dimentichiamo che, nonostante i potenti della terra abbiano spesso sbandierato la minaccia nucleare come un deterrente, gli uomini alla fine hanno sempre usato le armi che hanno inventato.

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