Nel sistema dei generi letterari la poesia lirica è nata come dimensione della soggettività per eccellenza, espressione di stati d’animo, situazioni personali, e non racconto di avvenimenti.

Nel panorama contemporaneo però, la centralità dell’io nel mondo, l’unità della coscienza, la capacità di introspezione del soggetto sembrano inattuali, e in un contesto in cui altre sono le idee sull’uomo e sul suo posto nel mondo, la poesia lirica sembrava destinata a una posizione marginale.

Eppure ha saputo resistere e rinnovarsi, diventando sperimentale, concreta, visiva, mescolandosi alla prosa, persino ridotta al silenzio, per poi recuperare forme antiche e uno stile alto e rassegnarsi infine ad adottare un registro basso e quotidiano, ampliando inevitabilmente la materia poetabile.

Ormai lontani i tempi di un sintonia dell’uomo con la natura, i poeti del secondo Novecento insistono sulla fragilità dell’ambiente e sulla responsabilità dell’uomo, spesso imprimendo ai loro versi l’andamento della cronaca o un tono polemico, immaginando pure uno scenario apocalittico, e servendosi di un linguaggio crudo e di un lessico tecnico.

Nelle pagine della ricca antologia di ecopoesia italiana ‘Verdi verdi’, pubblicata nel 2022 a cura di Alberto Volpi, è evidente il disastro di una natura anti – georgica; il poeta Antonio Delfini, figlio di proprietari terrieri padani, si rassegna ad abbandonare la propria terra dopo un’inondazione: “Tra Secchia e Panaro è disceso l’Oblio! / Virgilio è tradito per sempre. / A che serve – se ascolti, / dirti che non potremo costruire più niente? / […] Il nuovo fiume / è già un fiume che tutto travolge! / Dovremo andar via / dimenticare per sempre!”.

Nelle parole di Roberto Roversi rivive il disastro del Vajont con i suoi duemila morti; la diga gioiello dell’architettura non fu travolta da una natura distruttiva e matrigna, ma da uno sconsiderato intervento dell’uomo e a nulla servono le parole di cordoglio e di soldarietà di fronte all’entità della perdita: “Crolla la diga del Vaiont / travolgendo interi paesi immersi nel sonno. / Era la più alta d’Europa. / Si cercano le vittime nel fango / il fango ha sommerso cinque borgate / fra i superstiti rassegnazione e / fatalismo: i superstiti non piangono. / Il dolore del paese, messaggio del Papa. / Le prime telefoto dal mare di sangue sopra Belluno. / A Pirago il paese si è frantumato / su questa piana c’era Longarone / ora è un mare di fango pavimenti di case. […] / Calcolata perfettamente la diga / si è trascurata la parte geologica. […] Non è rimasto nulla. / Non nulla per dire poca roba: proprio nulla. […] Il consiglio dei ministri ha rivolto un riverente pensiero / ha espresso la commossa solidarietà / ha rinnovato l’assicurazione / – i provvedimenti intesi a dare pronta assistenza. / Un giovane piange la sua casa distrutta”.

Usa uno stile colloquiale e ironico Carlo Villa che, da intellettuale umanista, si sente in diritto di protestare contro un progresso tecnico, asservito al mercato, che può portare a danni irreversibili: “Del resto nel latte 200 picocurie non è molto, / è lontano il limite, che c’entra / preoccuparsene tanto, prima del preallarme / e quando ci sarà pericolo, il Ministro / della Sanità saprà lui / con ferma mano scremare / ai nostri piccoli la panna radiattiva / sparsa per tutta la penisola. / Scivolano rapide le nubi esiziali / sui pascoli e i flutti del mare, / ingrassando flore e faune / che l’export – import prima o poi / ci porterà negli stomaci […] ora basta, quindi, gridiamolo / è falso ogni tipo di progresso / che non passi pel cuore e dimostri / che tutto è al servizio dell’uomo / e che tutto diventerà inutile / se l’uomo poi muore”.

I rifiuti della nostra vita quotidiana trovano spazio nei versi di Guido Oldani, che osserva con nostalgia le acque del Lambro; dove un tempo si bagnava nei momenti di svago, ora vede scorrere scarti di ogni genere: “il lambro fiume senza un coccodrillo / dove tranquillo m’immergevo intero, sull’acqua si può quasi camminare, / vogano in questa come se in volata / venendo ognuno giù da chissà dove / e un fiasco in curva supera un coperchio / e un terzo affonda / capita se piove”. Persino la sintassi e l’ortografia sono state travolte dalla civiltà del boom economico.

Alla ‘Leonia’ di Italo Calvino, la città su cui incombe il rischio di essere travolta dalla sua stessa spazzatura, fa eco il componimento di Lino Angiuli, in cui il tema dello scarto, aprendosi ad una prospettiva apocalittica, ci richiama alla perdita di punti fermi, alla noia e al disorientamento di una vita liquida che tentiamo di arginare con acquisti compulsivi: “Intorno alla città si gonfia / l’anello degli scarti umani / è un horror vacui quotidiano / che plastiche non colmeranno / barattoli non riempiranno / e stelle non imbianchiranno / il frutto di tale ingordigia / sommergerà quei grattacieli / alzati sopra il monte immondo”.

Il Paese che un tempo era chiamato il giardino d’Europa appare agli occhi di Nelo Risi come terra di sfruttamento incontrollato delle risorse, teatro del turismo di massa e di un improbabile ritorno alla natura privo di una reale coscienza ecologica, destinato, in un futuro distopico, a diventare una rampa di lancio per fantascientifiche rotte interstellari: “…tutto il ferro è già cavato / ogni tronco fu arso ogni zolla spremuta / ogni sorgente fu spenta, cielo e mare / di un blu senza vita – / pur di trarre un vantaggio immediato / l’italiano pensò mai al risparmio? / L’Appennino frana dai due lati / su terre sfollate dove nessuno canta – / tutti in città! Ma un’onda / di ritorno torbida scontenta si riversa in cerca / di iodio e di crorofilla, è l’esodo / dei profughi del turismo… / Può darsi che un giorno saremo / una pista salutata dai venti / per i lanci su Marte”.

Alla fine, nel tempo dell’ Antropocene, alla poesia non resta che esprimere il dolore per una natura ferita e un’ umanità esausta e abbrutita, come nei versi di Raffaele Crovi: “ La terra muore / sono diventate / crepe le rughe / del pianeta, sono fughe / le corse degli animali. / Nella polvere delle pietre / si agita una sfatta umanità: / da sofferenza a indifferenza 7 ha accumulato crudeltà. / Secche le foglie / dei ciliegi; marciti, / nel giardino verminoso / i petali dei lillà. / La natura si avvia / alla glaciazione / della sterilità”.


Condividi:

Facebook
WhatsApp
Telegram
Email
Twitter

Condividi l'articolo

© 2020-2024 La Voce di Novara - Riproduzione Riservata
Iscrizione al registro della stampa presso il Tribunale di Novara

Picture of Claudia Cominoli

Claudia Cominoli

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

SEGUICI SUI SOCIAL

Sezioni

Condividi

SEGUICI SUI SOCIAL

Sezioni

Versi per l’ambiente

Nel sistema dei generi letterari la poesia lirica è nata come dimensione della soggettività per eccellenza, espressione di stati d’animo, situazioni personali, e non racconto di avvenimenti.

Nel panorama contemporaneo però, la centralità dell’io nel mondo, l’unità della coscienza, la capacità di introspezione del soggetto sembrano inattuali, e in un contesto in cui altre sono le idee sull’uomo e sul suo posto nel mondo, la poesia lirica sembrava destinata a una posizione marginale.

Eppure ha saputo resistere e rinnovarsi, diventando sperimentale, concreta, visiva, mescolandosi alla prosa, persino ridotta al silenzio, per poi recuperare forme antiche e uno stile alto e rassegnarsi infine ad adottare un registro basso e quotidiano, ampliando inevitabilmente la materia poetabile.

Ormai lontani i tempi di un sintonia dell’uomo con la natura, i poeti del secondo Novecento insistono sulla fragilità dell’ambiente e sulla responsabilità dell’uomo, spesso imprimendo ai loro versi l’andamento della cronaca o un tono polemico, immaginando pure uno scenario apocalittico, e servendosi di un linguaggio crudo e di un lessico tecnico.

Nelle pagine della ricca antologia di ecopoesia italiana ‘Verdi verdi’, pubblicata nel 2022 a cura di Alberto Volpi, è evidente il disastro di una natura anti – georgica; il poeta Antonio Delfini, figlio di proprietari terrieri padani, si rassegna ad abbandonare la propria terra dopo un’inondazione: “Tra Secchia e Panaro è disceso l’Oblio! / Virgilio è tradito per sempre. / A che serve – se ascolti, / dirti che non potremo costruire più niente? / […] Il nuovo fiume / è già un fiume che tutto travolge! / Dovremo andar via / dimenticare per sempre!”.

Nelle parole di Roberto Roversi rivive il disastro del Vajont con i suoi duemila morti; la diga gioiello dell’architettura non fu travolta da una natura distruttiva e matrigna, ma da uno sconsiderato intervento dell’uomo e a nulla servono le parole di cordoglio e di soldarietà di fronte all’entità della perdita: “Crolla la diga del Vaiont / travolgendo interi paesi immersi nel sonno. / Era la più alta d'Europa. / Si cercano le vittime nel fango / il fango ha sommerso cinque borgate / fra i superstiti rassegnazione e / fatalismo: i superstiti non piangono. / Il dolore del paese, messaggio del Papa. / Le prime telefoto dal mare di sangue sopra Belluno. / A Pirago il paese si è frantumato / su questa piana c'era Longarone / ora è un mare di fango pavimenti di case. […] / Calcolata perfettamente la diga / si è trascurata la parte geologica. […] Non è rimasto nulla. / Non nulla per dire poca roba: proprio nulla. […] Il consiglio dei ministri ha rivolto un riverente pensiero / ha espresso la commossa solidarietà / ha rinnovato l'assicurazione / - i provvedimenti intesi a dare pronta assistenza. / Un giovane piange la sua casa distrutta”.

Usa uno stile colloquiale e ironico Carlo Villa che, da intellettuale umanista, si sente in diritto di protestare contro un progresso tecnico, asservito al mercato, che può portare a danni irreversibili: “Del resto nel latte 200 picocurie non è molto, / è lontano il limite, che c’entra / preoccuparsene tanto, prima del preallarme / e quando ci sarà pericolo, il Ministro / della Sanità saprà lui / con ferma mano scremare / ai nostri piccoli la panna radiattiva / sparsa per tutta la penisola. / Scivolano rapide le nubi esiziali / sui pascoli e i flutti del mare, / ingrassando flore e faune / che l’export – import prima o poi / ci porterà negli stomaci […] ora basta, quindi, gridiamolo / è falso ogni tipo di progresso / che non passi pel cuore e dimostri / che tutto è al servizio dell’uomo / e che tutto diventerà inutile / se l’uomo poi muore”.

I rifiuti della nostra vita quotidiana trovano spazio nei versi di Guido Oldani, che osserva con nostalgia le acque del Lambro; dove un tempo si bagnava nei momenti di svago, ora vede scorrere scarti di ogni genere: “il lambro fiume senza un coccodrillo / dove tranquillo m’immergevo intero, sull’acqua si può quasi camminare, / vogano in questa come se in volata / venendo ognuno giù da chissà dove / e un fiasco in curva supera un coperchio / e un terzo affonda / capita se piove”. Persino la sintassi e l’ortografia sono state travolte dalla civiltà del boom economico.

Alla ‘Leonia’ di Italo Calvino, la città su cui incombe il rischio di essere travolta dalla sua stessa spazzatura, fa eco il componimento di Lino Angiuli, in cui il tema dello scarto, aprendosi ad una prospettiva apocalittica, ci richiama alla perdita di punti fermi, alla noia e al disorientamento di una vita liquida che tentiamo di arginare con acquisti compulsivi: “Intorno alla città si gonfia / l’anello degli scarti umani / è un horror vacui quotidiano / che plastiche non colmeranno / barattoli non riempiranno / e stelle non imbianchiranno / il frutto di tale ingordigia / sommergerà quei grattacieli / alzati sopra il monte immondo”.

Il Paese che un tempo era chiamato il giardino d’Europa appare agli occhi di Nelo Risi come terra di sfruttamento incontrollato delle risorse, teatro del turismo di massa e di un improbabile ritorno alla natura privo di una reale coscienza ecologica, destinato, in un futuro distopico, a diventare una rampa di lancio per fantascientifiche rotte interstellari: “...tutto il ferro è già cavato / ogni tronco fu arso ogni zolla spremuta / ogni sorgente fu spenta, cielo e mare / di un blu senza vita - / pur di trarre un vantaggio immediato / l’italiano pensò mai al risparmio? / L’Appennino frana dai due lati / su terre sfollate dove nessuno canta - / tutti in città! Ma un’onda / di ritorno torbida scontenta si riversa in cerca / di iodio e di crorofilla, è l’esodo / dei profughi del turismo… / Può darsi che un giorno saremo / una pista salutata dai venti / per i lanci su Marte”.

Alla fine, nel tempo dell’ Antropocene, alla poesia non resta che esprimere il dolore per una natura ferita e un’ umanità esausta e abbrutita, come nei versi di Raffaele Crovi: “ La terra muore / sono diventate / crepe le rughe / del pianeta, sono fughe / le corse degli animali. / Nella polvere delle pietre / si agita una sfatta umanità: / da sofferenza a indifferenza 7 ha accumulato crudeltà. / Secche le foglie / dei ciliegi; marciti, / nel giardino verminoso / i petali dei lillà. / La natura si avvia / alla glaciazione / della sterilità”.


© 2020-2024 La Voce di Novara
Riproduzione Riservata