Useppe è un bambino che nasce da una violenza. Una sera dell’inverno 1941, il secondo anno di guerra per l’Italia, un soldato tedesco ubriaco aggredisce la maestra elementare Ida Ramundo, mentre torna a casa percorrendo a passi rapidi le strade di Roma; è una vedova di trentasette anni già madre di un figlio adolescente. Dalla rubrica letteraria

Useppe è un bambino che nasce da una violenza. Una sera dell’inverno 1941, il secondo anno di guerra per l’Italia, un soldato tedesco ubriaco aggredisce la maestra elementare Ida Ramundo, mentre torna a casa percorrendo a passi rapidi le strade di Roma; è una vedova di trentasette anni già madre di un figlio adolescente.

Il frutto di quella violenza è un bambino amatissimo, piccolo e fragile, ma sereno e vitale, capace di irradiare allegria nella vita della madre; la sua età, il suo sguardo pulito e il suo ritardo cognitivo ne fanno un emblema di innocenza, estraneo al male e alla ferocia: i partigiani giustiziati, Mussolini appeso per i piedi a Piazzale Loreto, la vendetta popolare su una collaborazionista del regime.

Useppe non sa distinguere tra vincitori e vinti, cause e conseguenze storiche: quello che vede è violenza, umiliazione, dolore, senza la capacità di comprendere e giustificare l’atrocità.

E’ l’enigma della guerra, che libera gli istinti peggiori, la reiterata offesa alla dignità umana, il contrasto tra piccole esistenze individuali e grandi tragedie collettive, quelle della ‘Storia’ che dà il titolo al romanzo di Elsa Morante, ‘uno scandalo che dura da diecimila anni’, un cieco susseguirsi di sopraffazioni che travolgono soprattutto gli umili e gli indifesi.

L’opera esce nel 1974, quando il romanzo come genere narrativo era dato per morto, fortemente criticata anche perché secondo alcuni accentuava il ‘pathos’ per commuovere il lettore.

Eppure non c’è nulla di patetico nel corpo esanime del piccolo Useppe, ucciso da un attacco epilettico, è semplicemente la tragedia della storia umana che va oltre la guerra, perché la morte può consumarsi in infiniti modi a cui l’essere umano non può sottrarsi.

Non c’è nulla di patetico neanche nel presentimento di Ida, impegnata in una riunione a scuola e lontana dal figlio mentre inizia la crisi; pur essendo vittima di un momento storico, questa madre incarna la forza universale di un legame di sangue impossibile da spiegare, e che forse soltanto una donna può tentare di dire.

“Quando Ida si preparò a uscire di casa, Useppe era ancora immerso nel sonno, gli occhi apparivano cerchiati da un piccolo alone scuro. ‘Io esco, ma torno presto presto… tu aspettami a casa, eh, non ti muovere…io vado e torno’. Era passata poco più di un’ora quando le sopravvenne una sorta di malessere insostenibile. Si trovava nella stanza della direttrice, in riunione con altri insegnanti, e all’inizio, non essendo nuova a certi fenomeni nervosi, si sforzò di seguire tuttavia la discussione in corso (si trattava di Colonie estive, di questioni di merito e di diritto degli alunni…) finché si persuase, con una certezza quasi accecante, che tutto questo non la riguardava più […]. D’un tratto ebbe la sensazione cruda che, dall’interno, delle dita graffianti le si aggrappassero alla laringe per soffocarla, e, in un enorme isolamento, ascoltò un piccolo urlo lontano. Gli insegnanti, frattanto, non si erano accorti di nulla: Ida, infatti, era solo impallidita […]. Nel corso di forse un quarto d’ora, a intervalli più o meno uguali, la cosa si ripetè ancora due volte. D’un tratto Ida si alzò dalla sua sedia e, balbettando qualche scusa incoerente, corse nel piccolo ufficio della segreteria per telefonare a casa. Gli squilli a vuoto di là dal filo le arrivarono come un segnale di sommovimento e d’invasione, che le comandava di correre a casa d’urgenza. Si lasciò cadere il ricevitore dalle mani trascurando di riagganciarlo e infilò la scala verso l’uscita d’abbasso. Di nuovo fu sorpresa da quello strano spasmo ripetuto, ma il grido interno che glielo accompagnava stavolta era più simile a un’eco: e le portava una oscura indicazione della propria sorgente a cui ribatteva tardato e spoglio […]. Nell’ingressetto buio, il corpo di Useppe giaceva disteso, con le braccia spalancate, come sempre nelle sue cadute. Era ancora tiepido, e cominciava appena a irrigidirsi”.

In tutte le narrazioni della nostra civiltà risuona il pianto della ‘mater dolorosa’, il pianto di Maria ai piedi della croce è l’incarnazione stessa della natura dell’amore materno.

L’enigma di questo amore trasforma il dolore di Ida in follia: la donna si chiude in se stessa, si barrica in casa per proteggere il corpo del bambino, affinché nessuno venga a portarglielo via, separandola da lui irrimediabilmente. Implode, ma si libera dal peso della ragione, riducendosi in uno stato di incoscienza.

“Ida non volle assolutamente capire la verità. Contro i presagi ricevuti prima dai suoi sensi, adesso, davanti all’impossibile, la sua volontà si tirò indietro, col farglielo credere soltanto caduto (durante quest’ultima ora della sua lotta inaudita contro il Grande Male, in realtà Useppe, là nell’ingresso, era caduto e ricaduto da un attacco a un altro e a un altro, quasi senza sosta). E dopo averlo trasportato in braccio sul letto, essa si tenne là china su di lui, come le altre volte, in attesa che lui rialzasse le palpebre […]. E dopo aver tirato il catenaccio, in silenzio prese a correre le sue stanzucce, urtandosi nei mobili e nei muri […]. Ida prese a lagnarsi con una voce bassissima, bestiale: non voleva più appartenere alla specie umana. Il sorriso, che oggi aveva aspettato inutilmente sulla faccia di Useppe, spuntò a lei sulla propria faccia. Non era molto diverso, a vederlo, da quel sorriso di quiete, e di ingenuità meravigliosa, che le sopraggiungeva nei giorni dell’infanzia dopo i suoi attacchi isterici. Ma oggi, non si trattava di isteria: la ragione, che già da sempre faticava tanto a resistere nel suo cervello incapace e pavido, finalmente aveva lasciato dentro di lei la sua presa”.

Ida muore in manicomio nove anni dopo la morte del figlio e dopo essere vissuta in uno stato di totale inconsapevolezza.

“A parlarle, faceva un sorriso ingenuo e mansueto, pieno di serenità; ma era vano attendersi da lei qualche risposta, anzi essa sembrava a malapena percepire le voci, senza capire nessun linguaggio, né forse distinguere nessuna parola”.

“Io credo che quella piccola figura senile non sia durata nove anni se non per gli altri […]. Essa, in realtà, era morta insieme al suo pischelletto Useppe”.

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Useppe è un bambino che nasce da una violenza. Una sera dell’inverno 1941, il secondo anno di guerra per l’Italia, un soldato tedesco ubriaco aggredisce la maestra elementare Ida Ramundo, mentre torna a casa percorrendo a passi rapidi le strade di Roma; è una vedova di trentasette anni già madre di un figlio adolescente.
Dalla rubrica letteraria

Useppe è un bambino che nasce da una violenza. Una sera dell’inverno 1941, il secondo anno di guerra per l’Italia, un soldato tedesco ubriaco aggredisce la maestra elementare Ida Ramundo, mentre torna a casa percorrendo a passi rapidi le strade di Roma; è una vedova di trentasette anni già madre di un figlio adolescente.

Il frutto di quella violenza è un bambino amatissimo, piccolo e fragile, ma sereno e vitale, capace di irradiare allegria nella vita della madre; la sua età, il suo sguardo pulito e il suo ritardo cognitivo ne fanno un emblema di innocenza, estraneo al male e alla ferocia: i partigiani giustiziati, Mussolini appeso per i piedi a Piazzale Loreto, la vendetta popolare su una collaborazionista del regime.

Useppe non sa distinguere tra vincitori e vinti, cause e conseguenze storiche: quello che vede è violenza, umiliazione, dolore, senza la capacità di comprendere e giustificare l’atrocità.

E’ l’enigma della guerra, che libera gli istinti peggiori, la reiterata offesa alla dignità umana, il contrasto tra piccole esistenze individuali e grandi tragedie collettive, quelle della ‘Storia’ che dà il titolo al romanzo di Elsa Morante, ‘uno scandalo che dura da diecimila anni’, un cieco susseguirsi di sopraffazioni che travolgono soprattutto gli umili e gli indifesi.

L’opera esce nel 1974, quando il romanzo come genere narrativo era dato per morto, fortemente criticata anche perché secondo alcuni accentuava il ‘pathos’ per commuovere il lettore.

Eppure non c’è nulla di patetico nel corpo esanime del piccolo Useppe, ucciso da un attacco epilettico, è semplicemente la tragedia della storia umana che va oltre la guerra, perché la morte può consumarsi in infiniti modi a cui l’essere umano non può sottrarsi.

Non c’è nulla di patetico neanche nel presentimento di Ida, impegnata in una riunione a scuola e lontana dal figlio mentre inizia la crisi; pur essendo vittima di un momento storico, questa madre incarna la forza universale di un legame di sangue impossibile da spiegare, e che forse soltanto una donna può tentare di dire.

“Quando Ida si preparò a uscire di casa, Useppe era ancora immerso nel sonno, gli occhi apparivano cerchiati da un piccolo alone scuro. ‘Io esco, ma torno presto presto… tu aspettami a casa, eh, non ti muovere...io vado e torno’. Era passata poco più di un’ora quando le sopravvenne una sorta di malessere insostenibile. Si trovava nella stanza della direttrice, in riunione con altri insegnanti, e all’inizio, non essendo nuova a certi fenomeni nervosi, si sforzò di seguire tuttavia la discussione in corso (si trattava di Colonie estive, di questioni di merito e di diritto degli alunni…) finché si persuase, con una certezza quasi accecante, che tutto questo non la riguardava più [...]. D’un tratto ebbe la sensazione cruda che, dall’interno, delle dita graffianti le si aggrappassero alla laringe per soffocarla, e, in un enorme isolamento, ascoltò un piccolo urlo lontano. Gli insegnanti, frattanto, non si erano accorti di nulla: Ida, infatti, era solo impallidita […]. Nel corso di forse un quarto d’ora, a intervalli più o meno uguali, la cosa si ripetè ancora due volte. D’un tratto Ida si alzò dalla sua sedia e, balbettando qualche scusa incoerente, corse nel piccolo ufficio della segreteria per telefonare a casa. Gli squilli a vuoto di là dal filo le arrivarono come un segnale di sommovimento e d’invasione, che le comandava di correre a casa d’urgenza. Si lasciò cadere il ricevitore dalle mani trascurando di riagganciarlo e infilò la scala verso l’uscita d’abbasso. Di nuovo fu sorpresa da quello strano spasmo ripetuto, ma il grido interno che glielo accompagnava stavolta era più simile a un’eco: e le portava una oscura indicazione della propria sorgente a cui ribatteva tardato e spoglio […]. Nell’ingressetto buio, il corpo di Useppe giaceva disteso, con le braccia spalancate, come sempre nelle sue cadute. Era ancora tiepido, e cominciava appena a irrigidirsi”.

In tutte le narrazioni della nostra civiltà risuona il pianto della ‘mater dolorosa’, il pianto di Maria ai piedi della croce è l’incarnazione stessa della natura dell’amore materno.

L’enigma di questo amore trasforma il dolore di Ida in follia: la donna si chiude in se stessa, si barrica in casa per proteggere il corpo del bambino, affinché nessuno venga a portarglielo via, separandola da lui irrimediabilmente. Implode, ma si libera dal peso della ragione, riducendosi in uno stato di incoscienza.

“Ida non volle assolutamente capire la verità. Contro i presagi ricevuti prima dai suoi sensi, adesso, davanti all’impossibile, la sua volontà si tirò indietro, col farglielo credere soltanto caduto (durante quest’ultima ora della sua lotta inaudita contro il Grande Male, in realtà Useppe, là nell’ingresso, era caduto e ricaduto da un attacco a un altro e a un altro, quasi senza sosta). E dopo averlo trasportato in braccio sul letto, essa si tenne là china su di lui, come le altre volte, in attesa che lui rialzasse le palpebre […]. E dopo aver tirato il catenaccio, in silenzio prese a correre le sue stanzucce, urtandosi nei mobili e nei muri […]. Ida prese a lagnarsi con una voce bassissima, bestiale: non voleva più appartenere alla specie umana. Il sorriso, che oggi aveva aspettato inutilmente sulla faccia di Useppe, spuntò a lei sulla propria faccia. Non era molto diverso, a vederlo, da quel sorriso di quiete, e di ingenuità meravigliosa, che le sopraggiungeva nei giorni dell’infanzia dopo i suoi attacchi isterici. Ma oggi, non si trattava di isteria: la ragione, che già da sempre faticava tanto a resistere nel suo cervello incapace e pavido, finalmente aveva lasciato dentro di lei la sua presa”.

Ida muore in manicomio nove anni dopo la morte del figlio e dopo essere vissuta in uno stato di totale inconsapevolezza.

“A parlarle, faceva un sorriso ingenuo e mansueto, pieno di serenità; ma era vano attendersi da lei qualche risposta, anzi essa sembrava a malapena percepire le voci, senza capire nessun linguaggio, né forse distinguere nessuna parola”.

“Io credo che quella piccola figura senile non sia durata nove anni se non per gli altri […]. Essa, in realtà, era morta insieme al suo pischelletto Useppe”.

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